“Dal Passato” è la nostra serie di longreads su temi legati alla storia del design, del digitale e dell’editoria curate da professionisti appassionati, impegnati a esplorare il mondo di oggi tenendo sempre in tasca le conquiste di ieri. State leggendo il terzo capitolo di un percorso nella storia del graphic design attraverso le sue icone a cura di Renato Fontana.
Diego Armando Maradona e David Carson: cosa hanno in comune? Dotati di talento innato, naturalmente visionari, sovversivi rispetto alle regole comuni, generosi verso gli altri, appassionati a prescindere.
Superstar, entrambi. Idoli, anche. David Carson è stato imitato e riverito negli anni Novanta e nei primi anni Duemila da un pubblico internazionale di giovani creativi, innamorati del suo approccio alternative all’art direction. Anche dai più scettici o dai difensori del graficamente corretto. Per il suo disordine con senso, per la capacità di comunicare in modo forte e irregolare, per il suo inconfondibile caos visivo che può irretire l’occhio ma che provoca comunque una reazione emotiva.
Un protagonista a tutto tondo di una grande rivoluzione visiva partita dal basso, in modo intuitivo e non programmatico, con un accesso prepotente e straordinariamente originale alla professione e al mercato sulla base degli emergenti tool digitali. Graphic Design Magazine USA lo ha inserito nella propria hall of fame di tutti i tempi, assieme a Milton Glaser, Paul Rand, Saul Bass and Massimo Vignelli. E AIGA, l’associazione statunitense dei grafici più importante per storia e influenza, lo ha definito “our biggest star”.
Il curriculum
Nasce in Texas nel 1955, trascorre l’adolescenza in Florida. Surfer professionista, si laurea in Sociologia alla San Diego University.
Si avvicina al mondo della grafica grazie ad alcuni brevi corsi che frequenta in seguito e alla partecipazione alla redazione di una rivista specializzata nel mondo del surf e dello skate: Transworld Skateboarding, nel periodo dal 1984 al 1988.
Nel 1989 gli viene offerto di lanciare Beach Culture, un quadrimestrale per una nicchia di appassionati e supplemento di una rivista commerciale destinata al trade, di cui diviene il direttore artistico. Il format tabloid, gli elementi tipografici e fotografici da subito molto innovativi e che interpretano il modo di vedere e pensare del target di riferimento, lo collocano sotto i riflettori della community e lo spingono a divenire successivamente il direttore del più famoso Surfer Magazine.
Nel 1992 crea RayGun, un magazine dedicato alla scena musicale e al lifestyle alternativo, che dirige fino al 1995. Un grande successo editoriale, che gli vale una visibilità internazionale e la definizione di traduttore in termini grafici dell’estetica grunge, legata alla contemporanea ascesa del movimento rock di Seattle.
Ha vinto oltre 200 premi, vanta molteplici collaborazioni editoriali e di comunicazione alle spalle: tra gli incarichi più significativi, quelli per brand come Bose e Quiksilver. La fama e l’aura di grande interprete del suo tempo sono state arricchite da frequenti partecipazioni a talk e conferenze in tutto il mondo.
The Antigrid Superstar
In tutte le Accademie o scuole di grafica uno degli insegnamenti basilari è quello relativo al sistema delle griglie, retaggio della Scuola Svizzera della prima metà del Novecento, e della conseguente distribuzione delle informazioni, testuali o visive, nell’ambito dello spazio a disposizione. Un metodo logico, che prevede uno schema e una gerarchia, con l’obiettivo di favorire sostanzialmente la leggibilità e un effetto armonico.
Con il suo approccio da autodidatta, Carson abbatte sostanzialmente questo paradigma: nessun tipo di griglia è previsto nelle sue composizioni, nemmeno quelle suggerite dai nuovi software; l’aspetto soggettivo – attenzione di chi guarda – è prioritario rispetto a quello oggettivo- come impaginare e comunicare al meglio in chiave eminentemente oggettiva; il sentimento, anche debordante ed eversivo, prevale sull’aplomb di una comunicazione che aveva l’obiettivo di essere universale e canonica. Il grafico/art director/direttore creativo considerato anche in una chiave artistica – e quindi, di nuovo, soggettiva – e non solo come un professionista al servizio di un brand o di un progetto. Per chiudere il cerchio, anarchia e libertà -q.b.
Typo Hero
Uno degli asset creativi in cui Carson si cimenta con maggiore innovazione è certamente la tipografia. E lo fa, considerando dal suo punto di vista la “fine della stampa”, intesa in senso tradizionale rispetto all’avvento della tecnologia digitale, proseguendo sulla strada che il post-modernismo californiano e la Cranbrook Academy of Art del Michigan avevano già in qualche modo tracciato. Anche in questo caso scompaiono le regole e l’effetto di disruption è moltiplicativo: fine delle distinzioni metodologiche tra caratteri serif e sans serif; abbattimento delle consuetudini nella scelta dei corpi, del kern e del tracking; un utilizzo frequente della tecnica handmade; concessione a distorsioni e mix di stili o terze vie.
Steven Heller, nei suoi scritti, ha sottolineato il fatto che “He significantly influenced a generation to embrace typography as an expressive medium“.
La famosa intervista a Brian Ferry su RayGun nel 1994, realizzata con il carattere Zapf Dingbats, contenente solo simboli e non lettere – “the right font for a dull interview”, dichiarò poi Carson – rappresenta uno dei momenti topici della sua produzione da direttore creativo.
Raw’n’Dirty
L’utilizzo della fotografia è molto accurato ma del tutto “raw and dirty”, secondo una definizione dello stesso autore. Non ci sono effetti patinati, l’allure e il glamour provengono dal racconto stesso e dal “street and alternative flavour” che la costruzione delle immagini trasmette. Uno sguardo neorealista per i temi e per la scena di provenienza, una concessione alla libertà espressiva che rimanda alle avanguardie del Novecento, una sperimentazione continua, mescolando varie tecniche fotografiche e approcci poco mainstream.
Inquadrature sghembe, focus non perfetti, frammenti di pellicola assieme a fotografie digitali o a Polaroid, sporcature di vario genere, spesso richiamanti le interferenze o la pessima trasmissione: per certi versi l’estetica del DIY di matrice punk e il lo-fi amatoriale, anticipatore della evoluzione degli anni Duemila – si pensi ai cosiddetti prosumer di YouTube e dei social.
Multi
Guardare un magazine creato da Carson risultava ai tempi, e forse ancora oggi, un’esperienza simile a quella della navigazione su Internet: tante finestre aperte, file di testo e file di immagini che convivono, tanti browser, appunti scritti e ritmi sincopati, cartelle che si sovrappongono in un ipotetico desktop.
Immaginiamo che anche il desktop dello stesso Carson sia così. E un po’ ne siamo felici, perché ci sentiamo meno soli. E un po’ più giustificati a non cercare necessariamente la perfezione.
BIBLIOGRAFIA
The End of Print: The Graphic Design of David Carson. Chronicle Books, 1995
2nd Sight: Grafik Design After the End of Print. Universe Publishing, 1997
Fotografiks: An Equilibrium Between Photography and Design Through Graphic Expression That Evolves from Content. Laurence King, 1999
Trek: David Carson, Recent Werk. Gingko Press, 2003