Una conversazione sull’accessibilità digitale e la lotta contro i bias cognitivi.
Attenzione: i contenuti che vogliamo attraversare in questa lettura presentano un’alta probabilità di infiammarvi, come spesso accade quando si parla di bias cognitivi, diversità, politica e linguaggio divisivo, che è l’altra faccia di quello inclusivo.
Di cosa parliamo quando parliamo di persone al centro
Nel tentare di analizzare l’accessibilità è necessario partire dalla cornice di riferimento ovvero quella del design inclusivo definito come un approccio olistico alla progettazione di prodotti, edifici paesaggi, sistemi e città che mette al centro la diversità umana.
Si tratta quindi di progettare in ogni campo partendo dall’ascolto dei bisogni delle persone e provando a superare la più grande sfida umana: quella di mettere da parte il pregiudizio di sapere cosa serve a chi sta al di fuori di noi. Per questa ragione i temi che Marco Bertoni riporta nel suo libro non utilizzano il solito approccio educativo ma rispolverano il metodo socratico: possiamo definirla una sorta di maieutica delle esperienze digitali che hanno assunto caratteri multidimensionali.
La responsabilità del design
Che cosa risulta fondamentale nel lavoro del designer? Il superamento delle barriere cognitive attraverso il metodo e la razionalità.
Intendiamoci: semplificare è il nostro modo di stare nella complessità del mondo, ma cosa succede se finiamo per progettare un portale rivolto a persone con una neurodiversità senza averle interrogate? Come possiamo progettare un sito di e-commerce se non abbiamo studiato come il testo, i colori, i simboli, i segni e le ripetizioni si devono accordare alla loro capacità di comprensione e navigazione?
E se progettiamo un apparecchio acustico non tenendo conto di tutti i preconcetti interiorizzati e gerontofobici con cui siamo stati cresciuti? Succede che stiamo lavorando attuando la più democratica delle forme di discriminazione, l’ageism e ci stiamo perdendo un pezzo molto importante di contesto: la silver economy (ricordandoci che nel 2042 gli anziani in Italia saranno quasi 19 milioni e rappresenteranno il 34% della popolazione totale) – che è il qui e ora – e non solo una proiezione di un futuro anteriore.
Che cosa possiamo fare per uscire dall’impasse? Dire stop al design autoreferenziale. Proprio su questa scia la lettura del libro di Bertoni è un invito a liberarsi dalla schiavitù dei pattern imposti dall’alto, quelli impostati sul non ascolto, la non empatizzazione e la quasi cecità rispetto al contesto in cui si opera.
Questo importante esercizio risulta applicabile in ogni campo della nostra società: dalla progettazione di servizi e prodotti alla creazione di cambiamento nella conformazione delle aziende, dove la definizione di uno scopo – detto anche purpose – può fare nella differenza nel rendere queste organizzazioni agenti di cambiamento sociale ed anche ambientale in un ecosistema che ne ha un estremo bisogno.
Aprirsi alla prospettiva intersezionale
La chiamata al design inteso come progettazione di sistemi o ambienti complessi – anche digitali – in cui le persone fanno cose richiede di prendersi del tempo e approfondire tematiche fondamentali che permeano la nostra società: l’abilismo (ovvero la discriminazione e i pregiudizi sociali verso le persone disabili), l’identità di genere, il razzismo. Una volta fatto il punto della situazione è necessario comprendere come solo un pensiero sistemico e quindi intersezionale ci possa far capire che ci troviamo di fronte a una realtà multidimensionale dove ogni aspetto ha il suo peso specifico meritevole di essere tenuto in considerazione per generare valore condiviso.
In questo caso un approccio che risulta vincente è proprio quello dello Human Centered Design che lavora seguendo una logica consequenziale chiara: ispirazione – ideazione – implementazione.
Tutte le persone contano, nessuna esclusa, e il ruolo del design può permettere di raggiungere la vetta su cui tanto la politica quanto la religione non sono riuscite a mettere la bandierina: l’accessibilità intesa come abbattimento delle barriere tra persone e gruppi.
Rimane quindi una domanda per chi decide o ha già deciso di intraprendere il percorso di designer: i vostri sensi – tutti – sono pronti a questa sfida?
Ilaria Piva