Da economista a designer può apparire un salto quantico ma in realtà per alcuni è un percorso quasi naturale. Spesso ci sono eventi che in maniera casuale o indotta ci fanno scoprire quello che vogliamo essere.
Questi i momenti salienti di una trasformazione ancora in corso: una goccia nel mare di quello che verrà domani.
Di Caterina De Martino.
Quando l’economia appariva l’approdo sicuro

Mi sono laureata in economia politica: velocemente sono diventata una stagista in una grande società di consulenza insieme a molti miei coetanei. Lo stage in una multinazionale rappresenta per un neolaureato una vera palestra, un rito di passaggio. Accanto a moli infinite di lavoro nebuloso c’era un bellissimo sentimento di allegria e cameratismo che si condivideva con altri giovani, tutti speranzosi e intimoriti da una realtà caotica e quasi indomabile, e come me, alle prime armi.
Prima di vivere la centrifuga della grande consulenza avevo avuto un’esperienza non ordinaria che oggi rileggo come premonitrice del mio futuro. Nulla viene a caso.
Quando le cose ti parlano ma…
Prima di discutere la tesi avevo avuto la possibilità di frequentare a Copenhagen una summer school sull’Agricoltura Urbana che utilizzava il design thinking come approccio alla progettazione di strategie aziendali e sociali sostenibili e innovative.
L’esperienza era stata appassionante ma era rimasta lì, come se tutto quello che avevo vissuto non potesse essere replicato nella realtà intorno a me. Ero sorpresa e affascinata dal fatto che si partisse dalle persone per disegnare processi aziendali strategici che fossero in grado di generare valore per il sistema nel suo complesso: territorio, ambiente, comunità. Lì non si giocava con i post-it e quelli che vi partecipavano non erano certo umanisti e filosofi!
Una presa di coscienza lenta
Piano piano stavo sviluppando una certa inquietudine nei confronti del rapporto cliente-consulente alla vecchia maniera. Mi riconoscevo sempre meno in certi modelli e mi sentivo alla ricerca di un nuovo modo di affiancare le organizzazioni.
Lo scricchiolio stava diventando un terremoto. I risultati e le soluzioni che ero chiamata a produrre affondavano le radici nelle decisioni prese dai vertici nelle consuete tre ore di riunione. La parola d’ordine era “fai come…” e mai “fai perché…”. Tutto era finalizzato al business di qualcuno e mai ai bisogni, alle emozioni, ai desideri di persone reali.
Oggi posso dire che alla fine del mio percorso sentivo che:
Professionalmente avevo imparato a reggere ritmi e flussi di lavoro incessanti, cosa di cui sono sinceramente grata. A livello di metodo ero una tabula rasa.
Umanamente sentivo un gran vuoto. Come provare a portare davvero un valore aggiunto e personale, anche emozionale in un ambiente lavorativo, soprattutto se complesso e standardizzato?
Primo giro di boa: design thinking

Arrivo in UtLáb con questo bagaglio: l’idea di sperimentare altri modi di progettare e fare “consulenza” dove potessero guidare parole come collaborazione, ascolto e empatia.
Dopo i primi mesi di esperienza e parecchie centrifughe (questa volta positive!) mi sono trovata a sperimentare interviste, osservazioni etnografiche, test di usabilità, facilitazione e co-design mettendo in pratica molto di quello che avevo visto a Copenhagen.
Il cerchio si chiudeva nella possibilità di vedere realizzata molta della teoria che mi aveva affascinato, e soprattutto, quello che io stessa sentivo di essere come persona.
Secondo giro di boa: design doing
Guidata da designer più esperti ma lasciata libera di agire ho avuto l’opportunità di mettermi alla prova nel redesign strategico di una rivista. La necessità espressa dai committenti era semplice: immaginare nuove strade per far crescere la rivista che producevano.
Le mie prime riflessioni sono state di carattere etico: è giusto entrare nel mondo di qualcun altro? In che modo? Come far sì che le persone si sentano libere di esprimere il proprio mondo ma lasciandosi guidare in maniera confidente? Sarei mai stata in grado?
Terzo giro di boa: il design del co-design
Affiancata dal senior designer abbiamo dato forma agli strumenti visuali che avrebbero guidato la redazione a far emergere bisogni e immaginare il futuro. Difficilmente dimenticherò l’emozione della mia prima facilitazione. L’obiettivo era mostrarmi autorevole, conquistare la loro fiducia perché si lasciassero andare ad un processo completamente nuovo.
Questa volta non c’erano compiti da eseguire: c’era da comunicare, da esprimere, da interpretare. Capire questo ha cambiato il mio modo di essere come professionista.
E poi ancora domande: Sto prendendo in considerazione ciò che è rilevante? Sto ascoltando quello che hanno detto, come l’hanno detto? Sto rimanendo fedele alle loro aspirazioni o sto proponendo loro un percorso non adatto a loro? Sto parlando sinceramente e con rispetto delle criticità che sono emerse? Sto ipotizzando invece l’esistenza di ostacoli che non sono emersi?
L’interpretazione dei risultati è stata entusiasmante e impegnativa: vedere una strada nella storia altrui ha richiesto un bellissimo sforzo di immersione, ma anche di disciplina e autoanalisi, introspezione.
Restituire loro la visione del loro mondo ha dato a me la possibilità di capire chi voglio essere.
Attraccare in porto per riflettere

Molto c’è ancora da scoprire, ma ora sento di poter dire che:
- le persone molto spesso non hanno bisogno di una soluzione (le aziende e le organizzazioni si), ma solo di nuove prospettive e di energie. Mi viene da dire che coinvolgerle nel processo di progettazione raggiunge questo obiettivo da sé (vedi punto seguente);
- le persone hanno bisogno di una guida esperta per vedere e dare valore a quello che hanno già a disposizione e che spesso hanno avuto sotto gli occhi da sempre;
- progettare per le persone partendo dalle persone non è fondamentale solo perché fa (o prova a far) felici i clienti/utenti, ma anche perché fa felice il designer/consulente. Ho tirato un sospiro di sollievo all’idea di poter risparmiare le energie che avrei dedicato a convincermi di sapere cosa è meglio per gli altri dopo la lettura di documentazione ufficiale o di report su trend emergenti nel settore. Le persone che fanno parte del sistema per cui si progetta conoscono quali sono gli elementi fondamentali che danno vita alla realtà che vivono tutti i giorni;
- i dati qualitativi sono incredibilmente informativi e spingono il ricercatore ad interrogarsi sulla visione del mondo e i valori che esprime attraverso la loro analisi. Credo che in questo modo ci si senta responsabili dell’impatto che si contribuisce a generare, eliminando la distinzione tra il “professionista” e la“persona”. I risultati del processo di design acquistano così un’umanità davvero in grado di cambiare le persone e gli ecosistemi, liberandoli al tempo stesso da una pretesa di scientificità e di esattezza impossibile da onorare;
- i dati qualitativi sono divertenti da raccogliere.
Si torna a navigare con la bussola
Non so cosa mi riserva il futuro. La mia vita professionale esiste da poco ma inizia ora ad avere un senso.
Professionalmente c’è ancora tutto da imparare. Oggi mi si sta insegnando un metodo che dà forma per definizione a quel valore aggiunto, personale di cui parlavo all’inizio dell’articolo.
Ho imparato però che affezionarsi a un metodo standardizzato, insostituibile e impermeabile alle esperienze è forse l’unico modo per non essere dei bravi designer.
Sbagliare è dovuto: aiuta le aziende e le organizzazioni a cui si offre il proprio supporto a sentirsi ispirate, ad avere coraggio per affrontare il nuovo, a mettersi in discussione in prima persona.
Umanamente, queste nuove esperienze mi hanno messo di fronte all’impressione che il senso del lavoro non sia tanto quello di affermare sé stessi, ma che sia prima di tutto quello di offrire un’occasione per conoscere sé stessi, scoprirsi, perché no, crescere.
Riferimenti
Ho riflettuto su idee, autori, immagini che abbiano rappresentato qualcosa in questo percorso da suggerire a chiusura di questo breve articolo. Sono sincera: libri non me ne sono venuti in mente.
Più di tutto i riferimenti che hanno fatto la differenza in questo tratto di strada sono state le visioni e i sentimenti che ho sentito animare le persone che ho incontrato camminando: capi, colleghi, amici, maestri, professori.
In ognuno di loro ho trovato indizi su di me: così ho potuto scorgere dove fosse il passo dopo.
Le persone non sono la prima – e la più importante – ispirazione per un designer?